Da lassù Zeus e i suoi alleati sferrarono l’attacco contro i nemici olimpici. La terra conobbe distruzione e devastazione. Ci furono terremoti, maremoti, tempeste, uragani. Si spostarono e si sgretolarono le montagne, i mari furono sempre in tempesta, a un passo da sommergere la terra tutta. I fiumi inondavano le terre, i laghi scomparivano sprofondando nelle viscere della terra e le valli bruciavano! Orribili crepaci, precipizi e gorghi si formarono dappertutto. Dalle fauci dei vulcani sgorgava lava e dalle crepe d’intorno si sprigionava fumo intenso, acre, che sapeva di zolfo dal colore scuro.
C’era una volta un calzolaio ridotto, dalle disgrazie, in povertà. Aveva preso moglie tardi. Rimasto vedovo, con una creaturina appena spoppata su le braccia, era stato costretto a prendere una donna che badasse all’orfanella e alle poche faccende che occorrevano in casa. La mattina, di buon’ora, egli andava in giro in cerca di scarpe vecchie da rabberciare; e appena rientrato, si metteva al lavoro. Aveva comprato alla bambina un bel seggiolino perché imparasse a camminare. La voleva sorvegliare, davanti a l’uscio; ma quando la donna non poteva sorvegliarla, per precauzione egli legava il seggiolino con una cordicella a un piede del tavolinetto da lavoro, e così stava tranquillo.
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C’erano una volta un pescatore e sua moglie che abitavano in una lurida casetta presso il mare. Erano poveri e senza figli. Il pescatore andava tutti i giorni a pescare con la lenza, ma, ahimè, la pesca non era più sufficiente per sfamare lui e sua moglie. Un giorno il pescatore se ne stava pensieroso seduto sulla sua barchetta vicino alla lenza, ad aspettare che qualche pesciolino abboccasse all’amo. Quel giorno il mare era calmo, anche più del solito, tanto che il povero pescatore divenne triste e pensò che anche quel giorno non avrebbe pescato nulla.
Voglio raccontarvi una storia fantastica che vi sembrerà davvero una storia ho visto due polli in arrosto di mare volare e crepitare nel sale di fuoco volavano rapidi e svelti come le dune con le pance rivolte dal cielo futuro spargevano ali sulle schiene che guardano giù […]
C’erano una volta tre piccoli porcellini che se ne andavano in giro per il mondo soli e soletti a cercar fortuna, e soprattutto bisognosi di una casa dove poter dormire. Il primo porcellino trovò un contadino che trascinava una grande balla di paglia. “Per favore signor contadino! Per favore contadino… signor contadino per favore… o’ contadino ma che c’hai la paglia nelle orecchie?” “Eh, sì che c’è? Chi è che chiama?” rispose il contadino. “Per favore contadino, che me la daresti quella balla di paglia?” “Questa balla di paglia?” “Che me la daresti per favore?” “E perché dovrei dartela? O’ porcellino!” “Ti, prego signor contadino, vorrei costruirmi una casa calda e bella, tutta di paglia” E l’uomo contadino, che era buono e generoso, che fece? gliela regalò. Il porcellino allora si costruì una bella casetta tutta di paglia, comoda e morbida, e andò a dormire al calduccio. La mattina dopo, appena spuntò il sole, il porcellino sentì bussare alla porta.
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Là, in mezzo al mare, nelle profondità proibite all’uomo, abita la gente del mare sconosciuta al mondo. Nel punto più lontano del fondo si trova il castello del re del mare Poseidone. Egli era vedovo da molti anni, e aveva sei figlie. Tute belle. Ma chi governava il castello era la vecchia madre del re Poseidone, e voleva molto bene alle piccole principesse del mare, le sue nipotine. Le principesse del mare erano sirene. Avevano la pelle bianca come l’avorio e delicata come un petalo di rosa bianca, gli occhi erano azzurri come il mare, ma non avevano piedi, perché il loro corpo era per metà pesce e per metà fanciulla. E al posto dei piedi possedevano una grande pinna.
C’era una volta un Re che andava sempre a piedi perché aveva paura dei cavalli.
Sono bestie, e con le bestie non ci voglio aver a che fare. Così diceva. Per questo i suoi sudditi gli avevano dato il nomignolo di re Prudenzio. Il guaio era che assieme con lui dovevano andar a piedi anche i Ministri e tutte le persone del seguito. E mentre il Re camminava avanti con quelle gambe che, a forza di esercizio, erano diventate d’acciaio, Ministri e persone del seguito, stanchi morti, grondanti di sudore, brontolavano tra i denti:
Bella fortuna, la vostra! Accompagnare i morti al camposanto e ritornarvene a casa, magari con una gran tristezza nell’anima e un gran vuoto nel cuore, se il morto vi era caro; e se no, con la soddisfazione d’aver compiuto un dovere increscioso e desiderosi di dissipare, rientrando nelle cure e nel tramenío della vita, la costernazione e l’ambascia che il pensiero e lo spettacolo della morte incutono sempre. Tutti, a ogni modo, con un senso di sollievo, perché, anche per i parenti piú intimi, il morto – diciamo la verità – con quella gelida immobile durezza impassibilmente opposta a tutte le cure che ce ne diamo, a tutto il pianto che gli facciamo attorno, è un orribile ingombro, di cui lo stesso cordoglio – per quanto accenni e tenti di volersene ancora disperatamente gravare – anela in fondo in fondo a liberarsi.
Si sentiva bruciare. Diventò Una fiamma altissima e Cassandra fece un passo indietro, spaventata. “Avrai il Dono della profezia, ma non ti servirà a nulla, perché…” Una folgore si abbatté sulla terrazza. “Nessuno, mai, ti crederà” Disse il dio. “Questa sarà la punizione per aver tradito la tua promessa!” Una pioggia pungente iniziò a scendere dal cielo, ma nessuno dei due sembrava accorgersene. “Invece che come grande sacerdotessa, verrai ricordata solo come una povera pazza! Il calore che emanava dal suo corpo era insopportabile e Cassandra si coprì il viso con il braccio. Quando lo tolse dagli occhi, Apollo era scomparso. Cassandra si guardò intorno come se vedesse quel luogo per la prima volta. Improvvisamente, tutto le era chiaro: Troia sarebbe stata distrutta dai maledetti Achei!
Una fiaba adottata da Freedom LAC e messa in voce da Gaetano Marino
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C’era una volta una ragazza pigra che non voleva filare; la madre poteva dire qualunque cosa, ma non riusciva a persuaderla. Un giorno la madre andò in collera e le scappò la pazienza, cosicché‚ la picchiò, ed ella incominciò a piangere forte. In quel momento passava di lì la regina, e quando sentì piangere fece fermare la carrozza, entrò in casa e domandò alla madre perché‚ picchiasse sua figlia, dato che si sentivano le grida da fuori.
In un tempo, assai lontano da un tempo senza tempo, c’era il nulla. O forse c’era solo un grande disordine, che di solito significa Kaos. Ebbene, in quel grande Kaos c’erano cose che non avevano forma, né colore, non facevano odore e nessun rumore. Quel nulla appariva appeso chissà come, e sospeso non si sa dove, ma soprattutto non serviva proprio a niente. Ed ecco che d’improvviso, in quell’abisso senza fondo, qualcosa prese forma. Nessuno ha mai saputo con certezza come e perché ciò accadde. Quel qualcosa si chiamò Gea, cioè, Terra, e nelle viscere di quella Terra ci stava il Tartaro, dove alloggiava il fuoco. Subito dopo apparve, sospeso ad abbracciare la terra, Eros, l’amore; che in futuro divenne un dio biricchino, dispettoso e beffardo.
Una fiaba adottata da Freedom LAC e messa in voce da Gaetano Marino
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Tanto tempo fa, quando ancora il tempo era senza tempo, nelle valli, nei boschi e nelle colline di Ihknos, una grande isola posta al centro del mare, vivevano le Janas, conosciute come le piccole fate. Erano creature alate misteriose, assai piccole e straordinariamente belle. Apparivano solo nella notte, perché la luce del sole poteva rovinare la loro pelle fragile. Abitavano nei boschi, oppure vivevano nelle Domus de Janas (case delle fate) scavate nelle rocce.
Briciola dopo briciola Tante sono le storie fantastiche. Storie di cui nessuno sa quando siano cominciate, né da dove arrivate, tranne che dall’immaginazione dell’uomo. E questa è l’unica certezza. Perché le fiabe, le leggende e i racconti tratti dalla tradizione orale cominciano sempre con quel “c’era una volta”, che rimane proprio in un tempo eternamente fuori dal tempo, dunque, indefinibile. Furono storie narrate ai figli e poi ancora ai figli dei figli, finché sono giunte a noi. E nelle fiabe, si sa, il cielo non sta mai sempre in cielo, altrimenti che ci imbamboliamo a fare? Di voce in voce, di generazione in generazione, appaiono come tante briciole, ciascuna diversa dalle altre briciole. Perché ognuno ha sempre narrato secondo i propri ricordi, le proprie certezze, o dubbi, o speranze e, soprattutto, con i propri sogni; finché son venute fuori una, cento, migliaia di pagnotte: buone, profumate e calde. Ma mai nessuna uguale alle altre.
C’era una volta un Re che aveva un vocione così grosso e forte, che poteva essere udito benissimo fino a dieci miglia lontano. Quando parlava, pareva tuonasse; e per ciò gli avevano appiccicato il nomignolo di re Tuono. I Ministri e le persone di corte, dovendo praticare con lui tutti i giorni, diventavano sordi in poco tempo; ed era una disperazione. La povera gente che andava a chiedere giustizia ci rimetteva un polmone per farsi sentire, e spesso spesso non ci riusciva. Gli affari correvano a rotta di collo; la gente non ne poteva più. Ma, come dire al Re: — Maestà, siete voi che fate sordi i Ministri.
Così decise, li per li, che il mondo non avrebbe mai perduto il principe Demofonte. Anche se questo andava contro le leggi del cielo, lei l’avrebbe reso immortale! Demetra, le cui mani potevano far crescere tutte le piante dal seme al fiore, conosceva tutti i misteri della vita e della morte. Ma per dare immortalità a un mortale ci voleva tempo. Ogni notte la dea accendeva un fuoco con la legna raccolta, poi sollevava Demofonte dalla culla e lo posava, piano piano, sul fuoco magico. Il piccolo non si muoveva nemmeno. Dopo pochi minuti lo rimetteva nel suo lettino, spolverandogli la fuliggine dagli abiti con le dita leggere come ali di farfalla.
Doveva esserci qualcosa di andato a male in quella pozione magica. Era ne era convinta. Prima di restare incinta di Efesto, il dio del fuoco, chiese un afrodisiaco alla maga più conosciuta e rinomata, e cara, dell’Olimpo, e il risultato fu un figlio deforme, brutto e vendicativo. La regina dell’Olimpo però era decisa ad avere un figlio dal Capo, suo marito Zeus. Occorreva un erede al suo stato ufficiale di regina. Ma questa volta niente filtri magici, nessun intruglio strano e pericoloso. Si rivolse con temerarietà e tenacia al marito, per giorni e giorni, perseguitandolo in ogni dove e per ogni dove, finché Zeus, esausto, cedette e concesse alla propria moglie una notte d’amore.
Moltissimo tempo fa, in un piccolo paese della Bretagna, la giovane Arnaude conduceva un’esistenza felice in compagnia dei suoi genitori. In una notte di tempesta, una nave che passava di lì fu travolta dalle onde del mare e andò a conficcarsi sulle rocce della costa proprio nel punto in cui sorgeva l’abitazione della fanciulla. I suoi genitori videro con preoccupazione arrivare nella loro casa uomini di cui non conoscevano neanche la lingua, ma si tranquillizzarono non appena arrivò il capo dei naufraghi, il sultano d’Atlantide, che chiese loro ospitalità.
C’era una volta un pescatore che vivacchiava alla meglio con il raccolto della sua pesca. Partiva in barca la sera, stava a pescare tutta la nottata, e la mattina dopo all’alba era di ritorno. Quando aveva fatto una buona retata, scorgendo da lontano la moglie che lo attendeva, ansiosa, alla spiaggia, le faceva segno di rallegrarsi, agitando per aria il berretto.
Un ricco contadino andava in giro per i suoi campi rigogliosi, tronfio e orgoglioso. Nella fattoria le stalle erano piene di buoi, mucche, vitelli e cavalli. Terminata la visita alle sue proprietà, il ricco contadino tornò nella sua casa. Entrò nella stanza dove teneva i suoi forzieri pieni di denaro e restò ad ammirare la sua ricchezza. D’improvviso, si senti bussare: toc toc e toc! Ma non bussavano alla porta di casa, no, qualcuno bussava al suo cuore, e il ricco contadino sentì una voce: “Contadino, tu sei un uomo molto ricco, ma nella tua ricchezza ha mai pensato alla miseria dei poveri? Hai ma condiviso il tuo pane con chi aveva fame? Ti sei mai accontentato di ciò che possiedi, o la tua ingorda avarizia vuole ancora più ricchezze?”
Drammaturgia e messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi – TAC
Ed ecco la guerra delle guerre, dove mito e storia si confondono. Nascita e sorte di Ilio, più nota con il nome di città di Troia. Intrighi e menzogne in una lotta sanguinaria che durò per ben dieci terribili anni. Ogni destino degli umani fu determinato dal volere incontrastato degli dei: imprevedibili, invidiosi, infidi e dispettosi. Tant’è che la guerra si concluse con l’astuzia di Odisseo, un inganno che negò ai Troiani persino di combattere, né dunque l’onore delle armi. OTTAVO E ULTIMO CAPITOLO Un’idea di balocchi Il cavallo di legno L’inganno di Sinone Il grido inascoltato di Cassandra L’ora ultima della città di Troia Il presagio di quel sogno di Ecuba Il sogno e la fuga di Enea
Drammaturgia e messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi – TAC
Ed ecco la guerra delle guerre, dove mito e storia si confondono. Nascita e sorte di Ilio, più nota con il nome di città di Troia. Intrighi e menzogne in una lotta sanguinaria che durò per ben dieci terribili anni. Ogni destino degli umani fu determinato dal volere incontrastato degli dei: imprevedibili, invidiosi, infidi e dispettosi. Tant’è che la guerra si concluse con l’astuzia di Odisseo, un inganno che negò ai Troiani persino di combattere, né dunque l’onore delle armi. CAPITOLO SETTIMO Il vecchio Priamo chiede il corpo di Ettore La morte di Achille Il triste destino del grande Aiace Il ritorno di Filottete La morte di Paride
Drammaturgia e messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi – TAC
Ed ecco la guerra delle guerre, dove mito e storia si confondono. Nascita e sorte di Ilio, più nota con il nome di città di Troia. Intrighi e menzogne in una lotta sanguinaria che durò per ben dieci terribili anni. Ogni destino degli umani fu determinato dal volere incontrastato degli dei: imprevedibili, invidiosi, infidi e dispettosi. Tant’è che la guerra si concluse con l’astuzia di Odisseo, un inganno che negò ai Troiani persino di combattere, né dunque l’onore delle armi. CAPITOLO SESTO La morte di Patroclo Il presagio di Teti Il destino di Achille Le armi del dio Efesto La pace tra Agamennone e Achille Achille ritorna a combattere Il duello tra Achille ed Ettore
Drammaturgia e messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi – TAC
Ed ecco la guerra delle guerre, dove mito e storia si confondono. Nascita e sorte di Ilio, più nota con il nome di città di Troia. Intrighi e menzogne in una lotta sanguinaria che durò per ben dieci terribili anni. Ogni destino degli umani fu determinato dal volere incontrastato degli dei: imprevedibili, invidiosi, infidi e dispettosi. Tant’è che la guerra si concluse con l’astuzia di Odisseo, un inganno che negò ai Troiani persino di combattere, né dunque l’onore delle armi. CAPITOLO QUINTO La ferita dell’eroe arciere Filottete La prepotenza del re Agamennone La punizione di Apollo e la morte nera La furia di Achille L’intervento di Atena Il duello tra Paride e Menelao L’intervento di Afrodite
Drammaturgia e messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi – TAC
Ed ecco la guerra delle guerre, dove mito e storia si confondono. Nascita e sorte di Ilio, più nota con il nome di città di Troia. Intrighi e menzogne in una lotta sanguinaria che durò per ben dieci terribili anni. Ogni destino degli umani fu determinato dal volere incontrastato degli dei: imprevedibili, invidiosi, infidi e dispettosi. Tant’è che la guerra si concluse con l’astuzia di Odisseo, un inganno che negò ai Troiani persino di combattere, né dunque l’onore delle armi. CAPITOLO QUARTO Paride presenta Elena alla città di Troia Il dolore di Cassandra Il sogno e la furia di Menelao Tentativo di riconciliazione La finta pazzia di Odisseo Dov’è Achille? La punizione di Artemide Il sacrificio di Ifigenia
Drammaturgia e messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi – TAC
Ed ecco la guerra delle guerre, dove mito e storia si confondono. Nascita e sorte di Ilio, più nota con il nome di città di Troia. Intrighi e menzogne in una lotta sanguinaria che durò per ben dieci terribili anni. Ogni destino degli umani fu determinato dal volere incontrastato degli dei: imprevedibili, invidiosi, infidi e dispettosi. Tant’è che la guerra si concluse con l’astuzia di Odisseo, un inganno che negò ai Troiani persino di combattere, né dunque l’onore delle armi. CAPITOLO TERZO Atreo e Tieste, fratelli in odio Il macabro perdono di Atreo La rivelazione del padre di Egisto Agamennone e Menelao, fratelli in fuga Soccorso dal re Tindaro La superba Clitennestra e la bella Elena Gli eroi pretendenti di Elena La scelta di Elena e il giuramento La solitudine di Elena e l’incontro con Paride Il rapimento di Elena
Drammaturgia e messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi – TAC
Ed ecco la guerra delle guerre, dove mito e storia si confondono. Nascita e sorte di Ilio, più nota con il nome di città di Troia. Intrighi e menzogne in una lotta sanguinaria che durò per ben dieci terribili anni. Ogni destino degli umani fu determinato dal volere incontrastato degli dei: imprevedibili, invidiosi, infidi e dispettosi. Tant’è che la guerra si concluse con l’astuzia di Odisseo, un inganno che negò ai Troiani persino di combattere, né dunque l’onore delle armi. CAPITOLO SECONDO Il matrimonio tra il re Peleo e la dea del mare Teti Eris, dea della disocrdia Alla più bella Il giudizio di Paride Tentativi di corruzione: Afrodite, Era e Atena Paride ritorna in patria Le tentazioni di Paride
Drammaturgia e messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi – TAC
Ed ecco la guerra delle guerre, dove mito e storia si confondono. Nascita e sorte di Ilio, più nota con il nome di città di Troia. Intrighi e menzogne in una lotta sanguinaria che durò per ben dieci terribili anni. Ogni destino degli umani fu determinato dal volere incontrastato degli dei: imprevedibili, invidiosi, infidi e dispettosi. Tant’è che la guerra si concluse con l’astuzia di Odisseo, un inganno che negò ai Troiani persino di combattere, né dunque l’onore delle armi. CAPITOLO PRIMO Nascita della città di Ilio Storia del re spergiuro Laomedonte La vendetta di Poseidone Il sacrificio di Esione L’impresa di Eracle contro il mostro Idra La vendetta di Eracle Re Priamo e la regina Ecuba Principe Paride e il presagio di fuoco Il pastore Agelao e il prodigio dell’orsa La ninfa Enone
Cittadini di Tebe, guardate. Questo è Edipo, colui che fu nostro onorabile re. Egli sciolse l’enigma crudele della temibile Fenice, liberando la città dalla carestia e dal terrore. Tutti sappiamo quale fu il suo valore tra gli uomini, e anche per questo molti lo invidiarono. Ora guardate, o Tebani, a quale disperata vita lo ha condotto il destino, funesto, crudele e beffardo. Che nessuno giudichi mai felice un uomo, chiunque esso sia, prima che egli non abbia compiuto fino all’ultimo respiro il suo camino di vita e sofferto nel dolore.
C’era una volta un uomo ricco, che aveva come amici altri uomini ricchi. Grazie alla sua grande fortuna negli affari, era così ricco che ogni settimana era solito dare una grande festa nella sua lussuosa abitazione. A queste feste invitava sempre tutte le persone più importanti della città, che partecipavano a quei festini che duravano tutta la notte. Nessuno sapeva il motivo per cui non invitava mai alle sue feste i suoi fratelli, che erano molto poveri.
Erano nati da un vecchio mestolo di stagno. Erano venticinque fratelli, valorosi e temerari soldatini di stagno. Ciascuno aveva in spalla il fucile e lo sguardo fiero in avanti, ordinati e perfetti nell’inconfondibile uniforme rossa e blu. “Soldatini di Stagno, son soldatini di stagno” fu il grido che sentirono risuonare nella scatola in cui stavano conservati in bella mostra, ed era l’urlo di un bambino che dalla felicità tremava tutto e applaudiva. Era il giorno del suo compleanno e li aveva ricevuti in dono. Subito li tirò fuori e li mise in fila sul tavolo.
C’era una volta un vecchio artigiano che faceva trottole d’ogni forma e d’ogni grandezza. Quand’era la stagione delle trottole, i ragazzi si affollavano nella sua bottega: — Artigiano, artigiano, mi fate una trottola? — Piccola o grande? Piatta o col cocuzzolo? Secondo che la volessero piccola o grande, piatta o col cocuzzolo, egli adattava subito un pezzetto di legno al suo tornio, e con un piede sul pedale e in mano lo scalpello, si metteva a lavorare lesto lesto, brontolando: — Trottolina, piatta piatta, Gira gira e fa la matta! Oppure: — Trottolone fatto a pera, Gira gira fino a sera!
Un leone assai avanti con l’età, troppo stanco per andare a caccia e procurarsi il cibo, risolse che avrebbe potuto usare la furbizia per catturare ancora qualche preda. Si trovò un anfratto in una roccia e vi si coricò, mostrandosi ammalato. E fu proprio così che ogni qualvolta un animale lo vedeva, mosso dalla compassione, entrava nella grotta, e il leone, con un balzo, lo acchiappava e lo divorava. Parecchie prede caddero in trappola e nessuna, ovviamente, poté scappare per mettere in guardia gli altri animali.
Un parpaglione variopinto e vagabondo andava, una sera, discorrendo nel buio, quando vide in lontananza un lumicino. Subito drizzò le ali in quella direzione, e quando giunse vicino alla fiamma si mise a ruo-tarle agilmente intorno guardandola con grande meraviglia. Com’era bella! Non contento di ammirarla, il parpaglione si mise in testa di fare con lei quello che faceva di solito coi fiori odorosi: si allontanò, si voltò, e puntando coraggiosamente il volo verso la fiamma le passò sopra sfiorandola.
Erittonio nacque da un desiderio amoroso del dio del fuoco e fabbro, Efesto. La sua fu una vera e forte passione per la dea Atena, la dea della saggezza e dell’arte della guerra. Andò così. Quel giorno, Efesto, mentre lavorava al grande fuoco della sua fucina, che si trovava, come sappiamo, nel ventre del vulcano Etna, in Sicilia, ad un certo punto non sentì più il solito frastuono che i suoi assistenti, i ciclopi, provocavano battendo forte il metallo incandescente sull’incudine con il loro poderoso martello. Il dio, a quello strano e improvviso silenzio, fermò subito le macchine. Arrestò le catene che manovravano il grosso mantice che dava vigore al fuoco, e gridò: “Si può sapere che sta succedendo? Ciclopi! Perché vi siete fermati?”
C’era una volta un Re che aveva due figli, uno buono e l’altro cattivo. Quello buono era il Reuccio, che alla morte del padre doveva essere Re. La cosa non garbava al fratello cattivo, che pensò di disfarsi del fratello buono per diventare lui Re. Un giorno gli disse: — Fratello caro, andiamo a caccia? E andarono. Arrivati in mezzo a un bosco fitto fitto, lontani dalle persone del séguito, il fratello cattivo cavò fuori la spada e assalì il fratello buono. Il fratello cattivo credendo di aver ucciso il fratello buono, coprì il suo corpo insanguinato con erbacce e rami, e tornò indietro.
Su un monte lì vicino, il monte Citerone, c’era un leone che viveva in una grotta. Quando aveva fame usciva e faceva strage delle mandrie di Anfitrione – quelle alla cui guardia c’era Eracle – e di quelle di Tespio, re di Tespie, che pascolavano quasi sulle stesse terre. Eracle aveva diciott’anni, sentiva la potenza sprizzargli da tutti i pori e la rabbia salirgli agli occhi ogni volta che trovava la carcassa di uno dei suoi animali mezza divorata. Andò da Tespio e gli disse che aveva deciso di uccidere il leone e che sarebbe partito dalle sue terre per andare a caccia.
C’era una volta un cieco molto ricco, che possedeva molte monete d’oro. La notte non riusciva a dormire perché aveva paura di un ladro che viveva nei paraggi. Costui era solito rubare le pecore belle grasse e le capre che appartenevano agli abitanti del villaggio, e tutto questo faceva sì che il cieco avesse sempre più paura per il suo oro. Un giorno questo cieco portò con sé nella foresta tutto il suo tesoro, scavò una fossa e ce lo seppellì. Sfortunatamente il ladro era nelle vicinanze e così vide tutto quello che il cieco stava facendo. Appena il ricco si fu allontanato, il ladro prese l’oro e se lo portò a casa.
Dea guerriera ella apparve subito; e dea guerriera fu. Armata della lancia invincibile e dell’egida (una specie di corazza in pelle di capra), Atena ebbe una parte assai importante nella gigantomacchia, la famosa lotta tra Zeus e i Giganti, creature titaniche metà uomo e metà bestia: fino ai fianchi avevano una forma umana, mentre al posto delle gambe possedevano code di serpenti squamose. Uccise i titani Pallante ed Encelado. Pallante, dopo la sua morte, fu scuoiato per primo dalla dea Atena, e con la sua pelle Atena si fabbricò una corazza invincibile. Encelado, invece, l’altro gigante, fu inseguito da Atena fino in Sicilia, finché la dea lo immobilizzò lanciandogli addosso proprio l’isola intera di Sicilia.
L’impetuoso avvento del dio Dioniso fu rappresentato da un’immagine enigmatica, in cui appare uno sguardo stupito e beffardo, e con la bocca spalancata. Ogni tratto mostra inquietudine e ambiguità avvolti in uno sfrenato delirio mistico. Quest’immagine decretò per la prima volta l’apparizione della maschera, il cui compito era quello di nascondere la verità e l’assurdo della finzione.
Un corvo aveva fatto il nido su un’isola, e quando i piccoli vennero alla luce esso volle trasportarli a uno a uno dall’isola sulla terraferma. Ne prese uno tra gli artigli e volò con lui sopra il mare. Quando il vecchio corvo si trovò in mezzo al mare, si sentì sfinito, e batteva le ali sempre più lentamente. Pensò: «Ora io sono forte e lui debole e perciò lo trasporto al di là del mare; ma quando lui sarà grande e robusto, e io mi troverò indebolito per la vecchiaia, si ricorderà delle mie fatiche e mi trasporterà così da un posto all’altro?»
Una talpa, sottoterra, passeggiava per le lunghe gallerie che la sua famiglia aveva scavato e ripulito in tanti anni di lavoro. Andava avanti e indietro, saliva ai piani superiori, scendeva nelle cantine come se avesse avuto una vista buonissima; invece, come tutte le talpe, aveva gli occhi molto piccoli e poca vista.
Ade era un dio ricco, potente e molto temuto. Egli era il signore dell’Oltretomba. Il suo regno dunque, era popolato dalle ombre dei morti. E chi non temeva la morte? Proprio per questo ogni fanciulla o dea inorridiva all’idea di diventare sovrana di un regno dove stava sempre il buio nero nero, riempito da grida e dolore, qua e là qualche fiammata, e soprattutto, una volta entrati, non si poteva più tornare indietro. Questa solitudine con il tempo divenne per Ade un grande tormento, che lo rese triste e avvolto di una solitudine immensa: quasi nulla più aveva importanza per lui. Il suo divenne solo un semplice dovere per la parola data al fratello Zeus, ma nulla più. Di giorno in giorno Ade sentì che il suo regno dei morti aveva bisogno di trovare uno scopo che andasse ben oltre il solo regnare. Egli sentiva il bisogno di avere qualcuno con cui condividere i suoi morti e i suoi immensi tesori di sotterra.
Poseidone, il dio che regnava sul mare, fu uno degli Olimpici: figlio di Crono e di Rea. Fratello maggiore e alleato di Zeus. Egli aveva il potere assoluto degli abissi. Le Nereidi, giovani ninfe degli oceani, gli tenevano compagnia a corte, cavalcava i cavalli marini e il suo esercito era formato da milioni di tritoni. Tutti gli dovevano obbedienza. Poseidone era sempre corrucciato e severo, gli si doveva ammirazione assoluta per il suo aspetto imponente. Mai bisognava contraddirlo. Stava sempre armato del suo tridente, che mostrava come una minaccia mortale. Era quello il suo vessillo di potere, arma invincibile. Gli bastava agitare con la punta di esso le acque del mare e subito si scatenavano maremoti e terremoti.
Un giorno di caldo sole un uomo e sua moglie se ne stavano seduti comodi comodi sulla soglia di casa. Era l’ora del mezzodì, l’ora del pranzo, e i due quel giorno, la mattina presto, avevano tirato il collo ad un pollo, lo avevano spennato bene con l’acqua calda, lo spalmarono di strutto, salarono, e lo misero sul fuoco, con l’intenzione di mangiarselo, ovviamente. E ora stava lì, in mezzo alla tavola, dorato e con la pelle croccante, quell’arrosto di pollo, che ancora fumava. La sua fragranza s’era sparsa per tutta la casa e persino per la via. Bene, appena seduti a tavola l’uomo prese un bel forchettone e infilzo il pollo per dividerlo in parti.
Zeus decise di inviare sulla terra una creatura modellata apposta, una donna, che si chiamava Pandora, che in greco significa “tutti i doni”. Fu creata da Efesto e Atena, aiutati da tutti gli dei, per ordine di Zeus. Ognuno donò a Pandora una qualità: la bellezza, la grazia, l’abilità manuale e la persuasione
Ma neppure Zeus riuscì a metterli d’accordo. Così Atena propose di lasciar decidere ai cittadini, chi avrebbe preso la custodia della città. Atena e Poseidone riunirono il popolo sull’Acropoli e dissero che ciascuno dei due avrebbe concesso un dono: il regalo giudicato migliore avrebbe fatto vincere la protezione della città.
Ogni volta che andava a caccia d’anatre, il nobile falcone si arrabbiava. Quelle anatre riuscivano quasi sempre a beffarlo, tuffandosi sott’acqua proprio all’ultimo momento, e restando sommerse più di quanto lui potesse rimanere sospeso in aria ad aspettarle. Anche quella mattina il falcone decise di ritentare.
Accadde un giorno che un contadino, mentre tornava dai campi, vide un’aquila che era rimasta intrappolata in una rete. L’uomo ebbe pietà di quella poveretta, che tentava in ogni modo di liberarsi inutilmente dalla rete. Anzi, più si dimenava e più la rete stringeva la sua morsa nelle sue maglie fitte, e più ancora l’aquila si feriva. Il contadino decise di darle una mano, di restituirle la libertà. Sfilò il suo coltello, che di solito usava per gli innesti delle piante da frutto, affilatissimo, e tagliò la rete.
Artemide, dea protettrice della caccia e sorella gemella di Apollo, non aveva un carattere dolce, si sa. La figlia di Zeus, protettrice dei cacciatori e regina assoluta dei boschi, era sempre stata una dea scontrosa e riottosa, che per giunta aveva fatto voto di castità. L’unica volta che nella sua vita si innamorò di un giovane e forte cacciatore, bello e leale, non andò davvero bene. La storia è nota. Si chiamava Orione, il gigante, e tutti sanno che quella vicenda amorosa finì in modo tragico; per opera di un inganno del dio Apollo.
C’era una volta un povero vecchierello stanco, ammalato, e tremava tutto. Non riusciva nemmeno a stare in piedi. Era cieco, sordo e senza neppure un dente per masticare. Quando si sedeva a tavola insieme ai suoi cari era un disastro, poveraccio. Il pover uomo riversava tutto sulla tavola, la minestra colava dalla bocca e gli inzuppava la lunga barba.
Ai limiti di una grande foresta, in Africa, viveva tra gli altri animali una giraffa bellissima, agile e snella, più alta di qualunque altra. Sapendo di essere ammirata non solo dalle sue compagne ma da tutti gli animali era diventata superba e per questo non aveva più rispetto per nessuno, né dava aiuto a chi glielo chiedesse. Anzi se ne andava in giro tutto il santo giorno per mostrare la sua bellezza al mondo, dicendo: – Guardatemi, ammiratemi, io sono la più bella
Ahmed era un giovane commerciante che viveva in un piccolo villaggio dell’Africa. Un giorno dovette parlare al Consiglio degli Anziani per discutere di una questione assai importante. La bottega dove sbrigava i suoi affari aveva bisogno d’essere riparata per la troppa usura e soprattutto andava ingrandita, dato che gli affari, grazie al cielo, erano aumentati. Ahmed chiese dunque, che il Consiglio venisse convocato.
C’era una volta in un paese lontano lontano, un principe ricchissimo. Egli era unico figlio, amato e stimato dai sudditi del regno. I suoi modi e la sua educazione erano sempre stati degni di un grande principe, seppure non rinunciasse mai a feste e ricevimenti. Era un principe davvero a modo e sempre cordiale e gentile, con tutti, tant’è che in tanti, nobili e aristocratici, desideravano invitarlo alle feste e alle battute di caccia. Dopo aver trascorso la giovinezza in piena allegria e spensieratezza modesta, per il principe giunse il tempo di fare il grande passo: prendere moglie.
C’era una volta un pover’uomo, che aveva fatto tutti i mestieri, ma non ce n’era uno che gli fosse riuscito bene. Un giorno gli venne l’idea di andare in giro per il mondo, a raccontare fiabe ai bambini. Gli pareva un mestiere facile e con il quale ci si poteva pure divertire. Perciò si mise in viaggio, e quando giunse nella prima città, cominciò a gridare per le vie:
Fiabe, bambini, fiabe! Fiabe per chi vuol sentire storie. Chi vuol sentir le fiabe? I bambini accorsero da tutte le parti, e gli fecero ressa attorno. Lui cominciò:
C’era una volta un Re e una Regina, che non avevano figliuoli, e facevano di tutto per averne almeno uno…
Ma Questa la sappiamo già, – dissero i bambini – è la fiaba della Bella addormentata nel bosco. Un’altra! Un’altra!
Siamo liberi! Siamo liberi! – gridarono un giorno i tordi, vedendo che l’uomo aveva catturato la civetta.
Ora la civetta non ci fa più paura. Ora dormiremo tranquilli. – La civetta, infatti, era caduta in un’imboscata, e l’uomo l’aveva rinchiusa in gabbia.
Andiamo a vedere la civetta in prigione – dicevano i tordi volando e cantando intorno alla gabbia della loro avversaria.
Nella cantina di una vecchia cucina regnava la disperazione. Da quando era arrivato un grosso gattaccio i topi non potevano più uscire dalle loro tane, né di giorno né di notte. Con il tempo la fame si faceva sempre più forte e mordeva i loro stomaci, e se qualche topo coraggioso tentava di raggiungere la dispensa delle proviste, era quasi certo che non sarebbe tornato indietro. Cadeva preda del gattaccio, il quale se ne stava sempre in agguato in ogni luogo della vecchia cucina.
Apollo, dicono sia un dio senza cuore? Dipende. Apollo si innamorò, eccome. Certo, non tanto spesso come suo padre Zeus ma anche a lui toccò il classico colpo di fulmine, e che colpo che fu. Capitò che Eros, dio dell’amore, non ne potesse più di Apollo, così vanitoso e così antipatico! “lo sono più bello di te”, diceva Apollo. “E più bravo a comporre poesie!”, insisteva. Eros lo sopportava e cercava di non rispondere alle sue provocazioni. E dai oggi dai domani, però, gli scappò la pazienza e quando Apollo ricominciò — E sono più bello di te, e suono meglio di te, e tiro con l’arco meglio di te… – decise di reagire. Alla sua maniera, però.
C’era una volta un uomo e una donna che da molto tempo desideravano avere un bimbo. Qualche anno ancora e finalmente la donna scoprì di essere in attesa di un figlio. Sul retro della loro casa c’era una finestra dalla quale si poteva ammirare il giardino di una maga. Esso appariva pieno di fiori e piante di ogni specie. Nessuno, tuttavia, osava entrare, perché tutti sapevano quanto la maga fosse assai cattiva e feroce.
Prometeo, il cui nome significa colui che prevede, fu il più intelligente tra tutti i Titani; ovviamente dopo Zeus. Prometeo era cugino di Zeus, in quanto figlio del Titano Giapeto, fratello di Crono. Sua madre appare di incerta provenienza e nome. A volte la si identifica con Asia, o con Climène, entrambe figlie di Oceano.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Scosso dalla moglie, con una strappata rabbiosa al braccio, springò dal sonno anche quella notte, il povero signor Anselmo.
Tu ridi! Stordito, e col naso ancora ingombro di sonno, e un po’ fischiante per l’ansito del soprassalto, inghiottí; si grattò il petto irsuto; poi disse aggrondato:
Anche… perdio… anche questa notte?
Ogni notte! ogni notte! – muggí la moglie, livida di dispetto. Il signor Anselmo si sollevò su un gomito, e seguitando con l’altra mano a grattarsi il petto, domandò con stizza:
Ma proprio sicura ne sei? Farò qualche versaccio con le labbra, per smania di stomaco; e ti pare che rida.
No, ridi, ridi, ridi, – riaffermò quella tre volte. – Vuoi sentir come? cosí. E imitò la risata larga, gorgogliante, che il marito faceva nel sonno ogni notte. Stupito, mortificato e quasi incredulo, il signor Anselmo tornò a domandare:
C’era una volta un Re, che non viveva più tranquillo, dal giorno in cui una vecchia indovina gli aveva detto:
Maestà, ascoltate bene: Topolino non vuol ricotta; vuol sposare la Reginotta; E se il Re non gliela dà, Topolino lo ammazzerà. Il Re consultò subito i suoi ministri; ed uno di loro disse:
Maestà, è mai possibile che un topolino voglia sposare la Reginotta? Io credo che quella donna si sia beffata di voi. Ma gli altri non furono dello stesso parere.
Per evitare la disgrazia, bisogna distruggere tutti i topi del regno, mentre la Reginotta si trova ancora in fasce. Perciò il Re ordinò un decreto:
Pena la vita a chi non terrà uno o più gatti, secondo che avesse casa o palazzo. Chi ammazzerà cento topi diventerà barone.
Tristano era un gran pigrone, e benché non avesse altro da fare che portare tutti i giorni la capretta al pascolo, finita la sua giornata, tornava a casa sospirando:
Uffa! è proprio una grande fatica portare questa capretta al pascolo, e per giunta tutti i giorni! Se almeno ci si potesse sdraiare e dormire! Ma no, bisogna tenere gli occhi aperti, perché potrebbe fare danno alle piante, o entrare in qualche proprietà d’altri, o magari scappare, o magari diventar cibo per qualche lupo. Come si fa così a stare in pace e godersi la vita?.” Tristano si mise a sedere, e cominciò a pensare come fare per togliersi quel peso dalle spalle e dalla fatica. Per un bel po’, continuò a meditare inutilmente, ma ad un tratto ebbe un’idea:
Ah,ah, ho trovato! Sposo la grassa Isotta; ha una capra anche lei, e insieme con la sua può pascolare anche la mia, e io non ho più bisogno di strapazzarmi e affaticarmi.
Anteo era un gigante assai crudele, Tanto che appena uno straniero viaggiatore aveva la sventura di transitare nelle sue terre, questi veniva costretto con la forza a lottare e combattere contro il gigante. Dopo una lotta dura e senza riposo, né tregua, appena Anteo si rendeva conto che lo sfortunato straniero non ce l’avrebbe fatta più, e perciò se ne restava costretto a terra esausto e sanguinante, egli lo afferrava con le sue possenti braccia, piantava le gambe al suolo, lo inarcava sul proprio petto vigoroso, e con un violento colpo di reni e grido di belva umana, stritolava lo sventurato fracassandogli il torace, insieme a tutti gli organi vitali.
Il dio Rie viaggiava su due barche solari: la prima chiamata Mandjet (Barca dei Milioni di Anni), o barca del mattino; la seconda chiamata Mesektet, o barca della notte. Queste imbarcazioni trasportavano il dio Rie nel suo viaggio attraverso il cielo e il Duat, l’oltretomba. Ma il dio Rie oramai si faceva vecchio assai, nuovi dei erano apparsi, più giovani e più vigorosi di lui; per questo riusciva difficile all’antico dio solare reggere l’insieme dell’universo con la forte e sicura mano di un tempo.
C’era una volta un contadino che aveva un campicello tutto pietroso, e largo quanto il palmo di una mano. Vi stava un pagliaio ed egli viveva lì tutto l’anno: zappando, seminando, sarchiando, e raccogliendo i frutti del suo lavoro. Nelle ore di riposo levava di tasca un zufolo e, tì, tìriti, tì, si divertiva a fare una sonatina, sempre la stessa; poi riprendeva il lavoro. Intanto quel campicello sassoso gli fruttava più di un podere. Se i vicini raccoglievano, diciamo, per venti, lui raccoglieva per cento. I vicini si rodevano il fegato dall’invidia.
Un giorno una giovane scimmia, saltando di ramo in ramo, vide un nido pieno di piccoli uccelli. Tutta contenta si avvicinò ed allungò una mano per prenderli; ma quelli, sapendo già volare, fuggirono via lasciando nel nido soltanto il più piccolo. Allegra come una pasqua la scimmietta tornò a casa con l’uccellino; e tanto gli piaceva che cominciò ad accarezzarlo, a baciarlo, a stringer-selo al petto. Sua madre la guardava senza dir nulla.
Com’è carino! – gridava la scimmietta. – Gli voglio tanto bene! – E seguitò a baciarlo ed a stringerselo a sé, finché gli tolse la vita. Questa favola, è detta per quelli che non sanno castigare i propri figli.
In una delle tante di queste giornate d’attesa, d’improvviso, un generale greco, il re di Itaca Ulisse, conosciuto uomo astuto e sapiente, ebbe un’idea straordinaria. Accadde mentre attraversava, avvinto dai pensieri, il campo greco. Era il primo mattino, e come sempre si stava in attesa dell’inutile battaglia del giorno.
Era l’estate di tanto tanto tempo fa. La campagna pareva tutta dorata, e ogni cosa era bella e piena di luce donata dal sole. D’intorno alla campagna c’era un bosco immenso, nel quale c’erano fiumi e un lago profondo. Proprio lì viveva, tra i tanti animali, una mamma anatra. Già da qualche tempo covava le sue uova dove ci stavano i suoi anatroccoli; e una mattina, finalmente, una dopo l’altra, le uova cominciarono ad aprirsi.
Qua, qua! Benvenuti figliuoli. Qua qua… Disse l’anatra. Subito tutti i piccoli schiamazzarono cip cip cip a più non posso guardando da ogni parte.
Un cane, a cui piacevano tanto le uova, d’improvviso vide un grande mucchio di arselle bianche di mare, ben posate dentro una cesta di paglia. «Bene, con queste uova mi farò la pancia piena! Sì, avete capito bene, il cane, poveraccio e ingordo, scambiò le arselle di mare per uova. Spalancò la bocca e Gnam! ingurgitò intera l’arsella più grande. Dopo un po’ il cane ingordo senti nello stomaco un gran peso. E un dolore fortissimo, che gli bloccava persino il respiro.
Ohi, ohi, ohi… Mi sta bene, ma come ho potuto, sciocco che sono, pensare che tutto ciò che abbia un guscio sia un uovo? O qualcosa del genere.
Efesto il dio del fuoco, il fabbro delle opere di ingegno. Colui che forgiava armi nella sua grande officina dentro il vulcano Etna. Era così forte che per assistenti aveva i Ciclopi, giganti forzuti con un solo occhio, e per schiavi progettò e costruì un’armata di automi d’acciaio, una specie di robot. Efesto, grande architetto degli dei, figlio di Zeus e di Era. Fu lui a costruire le armi per Achille, fu lui a forgiare l’arco e le frecce per Apollo e Artemide, fu lui a costruire l’elmo e i sandali alati di Ermes, e fece pure, tra le tante opere, l’arco e le frecce di Heros.
E mentre tornava a palazzo fischiettando, staccò un ramoscello da un cespuglio, subito quello divenne oro. Raccolse una pietra da terra e quella divenne oro. Prese una manciata di terra e quella divenne d’oro. Attraversò un campo di grano, raccolse qualche spiga e subito quelle divennero d’oro. Strinse un frutto raccolto da un albero e quello divenne oro. Ogni cosa insomma diveniva d’oro. Il dono del dio Dioniso si stava avverando. Re Mida gridò dalla gioia. Persino ad una fonte, mentre si lavava le mani, riuscì a trasformare in oro il ruscello d’acqua.
Quando ritornò nel nido, con un piccolo verme in bocca, il cardellino non trovò più i suoi figlioli. Qualcuno, durante la sua assenza, li aveva rubati. Il cardellino incominciò a cercarli dappertutto, piangendo e gridando; tutta la selva risuonava dei suoi disperati richiami, ma nessuno gli rispondeva. Un giorno un fringuello gli disse:
Mi pare di aver visto i tuoi figlioli sulla casa del contadino. Il cardellino partì, pieno di speranza, e in breve tempo arrivò alla casa del contadino. Si posò sul tetto: non c’era nessuno. Scese sull’aia: era deserta.
Dopo aver compiuto le sue leggendarie dodici fatiche, Eracle andò dal re Eurito per chiedergli la mano della figlia Iole come promesso. Ma Eurito gli negò la figlia ed Eracle, in un accesso di furore uccise Ifìto, che peraltro era l’unico dei figli di Eurito ad acconsentire alle nozze dell’eroe con la sorella. Per espiare questo delitto esecrabile, in quanto compiuto in casa dall’ospite, Eracle si rivolse all’oracolo di Delfi per chiederne penitenza, ma la Pizia non volle nemmeno ascoltarlo e si rifiutò di dargli responso. Anche qui Eracle mostrò il suo caratteraccio e si mise a devastare il santuario, tanto che intervenne Apollo e si accese una lotta feroce tra i due.
L’oltretomba era il regno dei morti e il dio Ade se ne stava là sotto al buio, tutto solo. Nascoste, nelle viscere della terra, c’era un’immensa ricchezza, ci stavano pietre preziose e i metalli pregiati per forgiare le armi. Il regno di Ade era dunque immenso, un labirinto senza fine circondato dal fiume nero che si chiamava Stige. Su quel fiume, che separava il regno dei vivi da quello dei morti, transitavano le anime dei morti. Viaggiavano a bordo di una barca condotta dal terribile capitano Caronte.
C’era una volta un Re e una Regina, che avevano appena avuto una figlia. Bella e forte come il sole. Insuperbita di questa figliolina così bella, spesso diceva:
Neppur le Fate potrebbero farne un’altra come questa. Ma una mattina, va per levarla dalla culla e la trova con qualcosa in testa. Sera trasformata con una testa di rospo.
Oh Dio, che orrore! Benché fosse figlia unica e le volesse un gran bene, quella testa di rospo le faceva proprio schifo, e non volle più allattarla. Il Re, angustiato, disse a un servitore:
Prendila e portala giù; mettila nella cucciolata della cagna, e se morirà sarà meglio per lei!
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Quanti, di qui a molti anni, avranno la ventura di rivedere risorte Reggio e Messina dal terribile disastro del 28 dicembre 1908, non potranno mai figurarsi l’impressione che si aveva, allorché, passando in treno, pochi mesi dopo la catastrofe, cominciava a scoprirsi, tra il verde lussureggiante dei boschi d’aranci e di limoni e il dolce azzurro del mare, la vista atroce dei primi borghi in rovina, gli squarci e lo sconquasso delle case. Io vi passai pochi mesi dopo, e da’ miei compagni di viaggio udii i lamenti su l’opera lenta dello sgombero delle macerie, e tanti racconti di orribili casi e di salvataggi quasi prodigiosi e di mirabili eroismi.
Crisponcello e Filippo, pesce piccolo e pesce grande, inseparabili amici, scivolavano tra dune di sabbia addormentate da secoli e secoli sui fondali. Si rincorrevano tra le rocce d’argento dei vulcani sommersi; circondati da pietre rovinose di civiltà scomparse. Pietre scure avvolte dai coralli, fiori di mare, tane e nascondigli di migliaia e migliaia di animali coloratissimi. I due amici, come bimbi in festa all’uscita di scuola, s’intrufolavano in ogni anfratto. Filippo era rapidissimo, come solo gli squali sanno fare. Era come se tagliasse l’acqua; mentre Crisponcello restava aggrappato sulla pinna dorsale. Giocavano, s’avventuravano dappertutto, andavano matti per i vecchi relitti di mare.
I due amici, pesce piccolo Crisponcello e pesce grande, Filippo, proseguirono il loro cammino verso il grande stomaco del capodoglio. Quando furono quasi vicini, poco prima d’entrare videro qualcosa. Qualcosa di enorme che ostruiva il passaggio. Quella cosa teneva sulle spalle un guscio arricciato: era un lumacone. Aveva due corna lunghe lunghe, che reggevano gli occhietti, neri neri, un corpo largo, lungo e mollaccioso, di color verde rame; e… due zanne, affilatissime come sciabole, che gli spuntavano dalla bocca, simili a quelle di un Tricheco. “Ma le lumache non hanno le zanne”. Pensarono i due amici.
Quello è un Trico.raptor.lumacoso! – disse Crisponcello, drizzando le pinne. – Predatore carnivoro spietato, dell’era giurassica!
Tanto tanto tempo fa viveva, in un grande mare sconosciuto, un pesciolino, che si chiamava Crisponcello. Era un pesce molto piccolo, con tantissime pinne e pieno di colori. Crisponcello nuotava veloce veloce nel grande mare alla ricerca di un posto sicuro, perché i pesci più grandi di lui volevano mangiarselo. Eh sì. Questa è la legge dura della natura: pesce grande mangia pesce piccolo. Un giorno Crisponcello incontrò un grande pesce. Un enorme predatore squalo, era talmente più grande di lui che non valeva nemmeno la pena d’essere mangiato. Figuriamoci! Al grande squalo quel cosino con le pinne poteva sembrare una nocciolina da gustare, ma solo una, e che certamente non lo avrebbe sfamato per niente.
E vissero per sempre felici e contenti! Nella sera qualcuno disse. Poi all’improvviso la luce della camera si spense e tutto diventò nero, buio, scuro come la pece. Solo il lumicino della Luna rubava un po’ di buio infilandosi con la propria luce d’argento spettrale. Intorno, nella camera, vi stavano solo un’idea di ombre immobili. Sì, un’idea, o forse, sarebbe meglio dire un ricordo. Perché Filippa, la piccola grande cacciatrice di mostri, conosceva bene quel posto, anche se stava immerso nel quasi buio, e perché quel posto era proprio la sua camera.
Apollo era bello come un dio. Era nato un mese dopo la sorella Artemide e non era meno bello di lei, anzi, pareva fosse anche più bello. Bello come un apollo, come si dice di solito. E bravo e prepotente. Quando Zeus padre se lo vide davanti così bello e ben riuscito pensò di affidargli un bel po’ di poteri. E coì Apollo che era nato da poco aveva già sotto il suo dominio e la sua protezione la medicina la musica la capacità di fare profezie, la poesia, la forza di tirare frecce con abilità mortali. Ma era un dio terribilmente vendicativo e spietato.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio, ov’erano stati a visitarlo. Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:
Frenesia, frenesia.
Encefalite.
Infiammazione della membrana.
Febbre cerebrale. E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo cosí contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.
C’era una volta un Re e una Regina. La Regina era incinta. Un giorno passò una di quelle zingare che van dicendo la buona ventura, e il Re la fece chiamare:
Dimmi zingara, che partorirà la Regina?
Maestà, la Regina partorirà un serpente.
Un serpente? E tutti si disperarono.
E non potrete ammazzarlo appena venuto al mondo, ma dovrete allevarlo. Disse la zingara. La povera Regina pianse a non aver più lacrime. Chi avrebbe allattato una bestia così schifosa? La Regina sarebbe morta dal terrore! E poi, se le avesse morso il seno?
Maestà, non abbiate paura. Avrà un dente soltanto, un dente d’oro. Rassicurò la zingara.
Parecchi uomini, spinti da rabbia e collera cieca, per vendicarsi dei nemici, e pensando di trovare soddisfazione, preferiscono sottomettersi ad altri.
Messsa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
La stalla è lí, dietro la porta chiusa, subito dopo l’entrata nel cortile rustico in pendío, dall’acciottolato logoro e la cisterna in mezzo. La porta è imporrita; verde un tempo, ora ha quasi perduto il colore; come la casa, quello gialligno dell’intonaco, per cui appare la piú vecchia e misera del sobborgo. Questa mattina all’alba la porta è stata chiusa da fuori col grosso catenaccio arrugginito; e il cavallo che era nella stalla è stato messo fuori e lasciato lí davanti, chi sa perché, senza né briglia né sella né bisaccia; senza nemmeno la capezza. Vi sta paziente, quasi immobile, da parecchie ore. Sente attraverso la porta chiusa l’odore della sua stalla lí prossima, l’odore del cortile; e pare che di tanto in tanto, aspirandolo con le froge dilatate, sospiri.
Intanto, Leto, ignara, si preparava a partorire. Zeus non sapeva che fare ma, si sa, le divinità hanno molte risorse, e fu così che il re degli dèi trovò una soluzione! Quando le doglie si fecero più intense e Leto era ormai vicina al parto, Zeus chiamò a sé le forze della natura e fece emergere dal mare un’isola. Nuova nuova. Eppure, Era aveva detto che un’isola non sarebbe andata bene! Già, ma Zeus era il re degli dèi e le sue pensate erano molto raffinate!
Il cigno piegò il flessuoso collo verso l’acqua e si specchiò a lungo. Allora capi la ragione della sua stanchezza, e di quel freddo che gli attanagliava il corpo facendolo tremare come d’inverno: con assoluta certezza egli seppe che la sua ora era suonata e che bisognava prepararsi a morire. Le sue piume erano ancora bianche come il primo giorno della sua vita. Era passato attraverso le stagioni e gli anni senza macchiare la sua veste immacolata; ora poteva anche andarsene, concludere in bellezza la sua vicenda. Alzando il bel collo, si diresse lento e solenne sotto ad un salice, dov’era solito riposarsi durante la calura. Era già sera. Il tramonto tingeva di porpora e di viola l’acqua del lago. E nel grande silenzio che già scendeva tutto intorno, il cigno incominciò a cantare. Mai aveva trovato, prima di allora, accenti così pieni d’amore per tutta la natura, per la bellezza del cielo, dell’acqua e della terra. Il suo canto dolcissimo si sparse nell’aria, velato appena di nostalgia, finché piano piano si spense, insieme all’ultima luce dell’orizzonte.
È il cigno – dissero commossi i pesci, gli uccelli, tutti gli animali del prato e del bosco – è il cigno che muore.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Eran venuti sú per la buja, erta scaletta di legno; sú, in silenzio, quasi di furto, piano piano. Il professor Carmelo Sabato – tozzo pingue calvo – con in braccio, come un bamboccetto in fasce, un grosso fiasco di vino. Il professor Lamella, antico alunno del Sabato, con due bottiglie di birra, una per mano. E da piú d’un’ora, su l’alta terrazza sui tetti, irta di comignoli, di fumajoli di stufe, di tubi d’acqua, sotto lo sfavillío fitto, continuo delle stelle che pungevano il cielo senz’allargar le tenebre della notte profonda, conversavano. E bevevano.
Un ragno, dopo avere esplorato tutta la casa, di fuori e di dentro, pensò di rintanarsi nel buco della serratura. Che rifugio ideale! Chi lo avrebbe mai scoperto, li dentro? Lui, invece, affacciandosi sull’orlo della toppa, avrebbe potuto guardare dappertutto senza correre alcun rischio. Lassù diceva fra sé, sbirciando la soglia di pietra tenderò una rete per le mosche; quaggiù aggiungeva scrutando lo scalino ne tenderò un’altra per i bruchi; qui, vicino al battente dell’uscio, farò una piccola trappola per le zanzare. Il ragno gongolava. Il buco della serratura gli dava una sicurezza nuova, straordinaria; cosi stretto, buio, foderato di ferro, gli sembrava più inattaccabile di una fortezza, più sicuro di qualsiasi armatura. Mentre si crogiolava in questi pensieri, gli giunse all’orecchio un rumore di passi: allora, prudente, si ritirò in fondo al suo rifugio. Qualcuno stava per entrare in casa; una chiave tintinnò, s’infilò nel buco della serratura e lo schiacciò.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Una scatola di giocattoli, di quelle con gli alberetti incoronati di trucioli e col dischetto di legno incollato sotto al tronco perché si reggano in piedi, e le casette a dadi e la chiesina col campanile e ogni cosa: ecco, immaginate una di queste scatole, data in mano al Bambino Gesú, e che il Bambino Gesú si fosse divertito a costruire al padre beneficiale Fioríca quella sua parrocchietta cosí; la chiesina modesta, dedicata a San Pietro, di fronte; e di qua, la canonica con tre finestrette riparate da tendine di mussola inamidate che, intravedendosi di là dai vetri, lasciavano indovinare il candore e la quiete delle stanze piene di silenzio e di sole; il giardinetto accanto, col pergolato e i nespoli del Giappone e il melagrano e gli aranci e i limoni; poi, tutt’intorno, le casette umili dei suoi parrocchiani, divise da vicoli e vicoletti, con tanti colombi che svolazzavano da gronda a gronda; e tanti conigli che, rasenti ai muri, spiavano raccolti e tremanti, e gallinelle ingorde e rissose e porchetti sempre un po’ angustiati, si sa, e quasi irritati dalla soverchia grassezza.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Sui bianchi lettucci tolti dalla corsia e disposti uno accanto all’altro in quella camera remota del collegio piena di luce e di silenzio, le quattro giovani suore giacevano immobili. Le cuffiette di tela, semplici, senza una trina né un nastro, annodate sotto il mento da due cordelline, disegnavano la rotondità del capo e incorniciavano i pallidi visi quasi infantili Aprivano di tanto in tanto gli occhi, dapprima un po’ esitanti alla luce, poi attoniti e smemorati; li richiudevano poco dopo con lenta stanchezza, ma ormai senza pena.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Nelle società cosí dette civili, o dette anche storiche, la leggenda – si sa – non può piú nascere. Potrebbe nascere e spesso anche nasce, ma umile, e striscia timida, tra il popolino: lumachella che ha gli occhi nelle corna e subito li ritira tra il bollichío della vana bava, appena col dito rigido e sporco d’inchiostro un professore di storia glieli tocchi. Crede, il professore di storia, che in quel suo dito rigido e sporco d’inchiostro sia la santa verità, e che sia un bene far ritirare le corna alla lumachella. Disgraziato! E piú disgraziati i posteri che avranno minuto per minuto documentati i fatti degli avi e dei padri, che forse, abbandonati alla memoria e all’immaginazione, a poco a poco, come ogni cosa lontana, s’inazzurrerebbero di qualche poesia. Storia, storia. Finiamola con la poesia.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Ci eravamo levati al bujo e camminavamo da tre ore con una fame da lupi, per certe scorciatoje scellerate che, a dire di Stefano Traína, ci avrebbero fatto risparmiare un terzo di cammino: ma già tre o quattro volte ci era toccato di tornare indietro, non trovando l’uscita, e non so quanto tempo avevamo perduto a scavalcar muricce, e cercare il passo tra fitte siepi di àgavi e di rovi, a traversar rigagnoli sui ciottoli: fatiche da bestie, che ci avevano tolto l’unico compenso al sonno perduto: quello di godere, camminando per vie piane, l’ilare freschezza dell’aria mattutina in campagna. E gli scarponi e le munizioni da caccia ci pesavano e la cinghia del fucile ci segava le spalle.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Io non so com’è la gente! – soleva ripetere don Marchino per lo meno una ventina di volte al giorno, insaccandosi nelle spalle e aprendo le mani a ventaglio davanti al petto, con gli angoli della bocca contratti in giú: – Io non so com’è la gente! Perché la gente in tanti e tanti casi non si regolava com’egli si sarebbe regolato; o anche perché la gente spessissimo trovava da ridire su tutto ciò che faceva lui e che a lui pareva ben fatto. Ma, santo cielo, per qual mai ragione fin da principio lo avevano veduto cosí male a Stravignano, i suoi parrocchiani? Non gli perdonavano d’aver ridotto a podere (col beneplacito dei superiori, s’intende!) il querceto che prima sorgeva dietro la chiesetta a valle e prendeva tutto il beneficio della cura.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Così: una crocetta e il nome della figlia morta accanto. Cinque, in colonna. Poi una sesta, che aspettava il nome dell’ultima: Agata, a cui poco ormai restava da patire. Don Nuccio D’Alagna si turò le orecchie per non sentirla tossire di là; e quasi fosse suo lo spasimo di quella tosse, strizzò gli occhi e tutta la faccia squallida, irta di peli grigi; poi s’alzò. Era come perduto in quella sua enorme giacca, che non si sapeva piú di che colore fosse e che dava a vedere che anche la carità, se ci si mette, può apparire beffarda. La aveva certo avuta in elemosina quella vecchia giacca.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Il vecchio Siròli da piú di un mese sembrava inebetito dalla sciagura che gli era toccata, e non riusciva piú a prender sonno. Quella notte, allo scroscio violento della pioggia, s’era finalmente riscosso e aveva detto alla moglie, insonne e oppressa come lui:
Domani, se Dio vuole, romperemo la terra. Ora, dall’alba, i tre figliuoli del vecchio, consunti e ingialliti dalla malaria, zappavano in fila con altri due contadini giornanti. A quando a quando, ora l’uno ora l’altro si rizzava sulla vita, contraendo il volto per lo spasimo delle reni, e s’asciugava gli occhi col grosso fazzoletto di cotone.
Coraggio! – gli dicevano i due giornanti. – Non è caso di morte, alla fine.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Vi parrà strano che io ora stia per fare entrare un orso in chiesa. Vi prego di lasciarmi fare perché non sono propriamente io. Per quanto stravagante e spregiudicato mi possa riconoscere, so il rispetto che si deve portare a una chiesa e una simile idea non mi sarebbe mai venuta in mente. Ma è venuta a due giovani chierici del convento di Tovel, uno nativo di Tuenno e l’altro di Flavòn, andati in montagna a salutare i loro parenti prima di partire missionari in Cina. Un orso, capirete, non entra in chiesa cosí, per entrarci; voglio dire, come se niente fosse. Vi entra per un vero e proprio miracolo, come l’immaginarono questi due giovani chierici. Certo, per crederci, bisognerebbe avere né piú né meno della loro facile fede. Ma convengo che niente è piú difficile ad avere che simili cose facili. Per cui, se voi non l’avete, potete anche non crederci; e potete anche ridere, volendo, di quest’orso che entra in chiesa perché Dio gli ha dato incarico di mettere alla prova il coraggio dei due novelli missionari prima della loro partenza per la Cina.
Messa in voce di Gaetano Marino. Simon Balestrazzi
Tanti anni fa, a un pittore non si sa donde venuto, egli che viveva da selvaggio sú per le spalle dei monti, guardiano di mandrie, si era prestato a far da modello per una pala d’altare, di cui quegli preparava i cartoni e altri studii preliminari. Che parte fosse destinato a rappresentare in quel quadro sacro, non si era neppur curato di sapere: si era lasciato vestire di strana foggia e atteggiar d’un gesto violento, con una verga in mano. Ma, poco dopo, consacrata la chiesa nuova, e accorso egli con tutto il popolo alla prima funzione, vedendosi nella pala effigiato in uno dei giudici che colpivan Gesú legato alla colonna, s’era messo a gridar furibondo e a piangere e a strapparsi i capelli, pestando i piedi per terra: “Levatemi di lí! Son cristiano!”
Messa in voce di Gaetano Marino. Simon Balestrazzi
La mamma, – gridò Jenny entrando esultante nella mia camera e battendo le mani – la mamma acconsente per te! Mi voltai a guardarla con aria stupita dal canto del fuoco, in cui stavo da circa un’ora tutto ristretto in me dal freddo, con le mani e i piedi al caldo alito del camino, e l’anima… oh, l’anima, chi sa dir dove se ne vada in certi momenti, quasi alienata dai sensi, inerti, mentre gli occhi par che guardino e pur non vedono?
Uh! – riprese tosto Jenny, come assiderata dal mio freddo. – Mi sembri un vecchio! Figuriamoci, se la neve fosse davvero caduta qui! E cosí dicendo, mi scompigliò su la testa i capelli. Io le presi ambo le mani bellissime, e le tenni a lungo tra le mie:
Te le riscaldo, aspetta! A che acconsente la mamma?
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Il signor Daniele Catellani, mio amico, bella testa ricciuta e nasuta – capelli e naso di razza – ha un brutto vizio: ride nella gola in un certo modo cosí irritante, che a molti, tante volte, viene la tentazione di tirargli uno schiaffo. Tanto piú che, subito dopo, approva ciò che state a dirgli. Approva col capo; approva con precipitosi:
Già, già! già, già! Come se poc’anzi non fossero state le vostre parole a provocargli quella dispettosissima risata.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Un caso singolarissimo era accaduto, parecchi anni addietro, a Marco Saverio Bobbio, notajo a Richieri tra i piú stimati. Nel poco tempo che la professione gli lasciava libero, si era sempre dilettato di studii filosofici, e molti e molti libri d’antica e nuova filosofia aveva letti e qualcuno anche riletto e profondamente meditato. Purtroppo Bobbio aveva in bocca piú d’un dente guasto. E niente, secondo lui, poteva meglio disporre allo studio della filosofia, che il mal di denti. Tutti i filosofi, a suo dire, avevano dovuto avere e dovevano avere in bocca almeno un dente guasto. Schopenhauer, certo, piú d’uno.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Che c’era da ridere in tutto questo? Eppure, nella piazza aerea del paese, tutta frusciante di foglie secche, che s’oscurava e rischiarava a una rapida vicenda di nuvole e di sole, il vecchio dottor Fanti, rivolgendo quelle domande a Tommasino Unzio uscito or ora dal seminario senza piú tonaca per aver perduto la fede, aveva composto la faccia caprigna a una tale aria, che tutti gli sfaccendati del paese, seduti in giro innanzi alla Farmacia dell’Ospedale, parte storcendosi e parte turandosi la bocca, s’erano tenuti a stento di ridere.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Debbo compiangere veramente la mia povera vecchia zia Velia di Cargiore per un gran cordoglio che le è toccato quest’anno e di cui si mostra inconsolabile, perché prevede che non le passerà piú e le amareggerà orribilmente il pensiero, prima cosí dolce, della prossima morte, se il vescovo… se Monsignore non ci porta rimedio. Monsignore, sí: perché il cordoglio di zia Velia, condiviso da tutti i fedeli di Cargiore, è cagionato dal nuovo curato venuto quest’anno. Un uomo d’altri tempi, per compiangere una sua vecchia zia dall’anima candida, primitiva, afflitta da un dolore di questo genere, avrebbe trovato certamente parole semplici, espressioni tenere, qualche ragione alla buona, spontanea, a lei comprensibile.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l’impressione d’una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l’anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors’anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi. Era festa dovunque; in ogni chiesa, in ogni casa; intorno al ceppo, lassú; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori. E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, erano deserte nella rigida notte. E mi pareva di andare frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo: «Buon Natale!» e sparivo.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Coricatosi accanto alla moglie, che già dormiva, voltata verso il lettuccio, su cui giacevano insieme i due figliuoli, Spatolino disse prima le consuete orazioni, s’intrecciò poi le mani dietro la nuca; strizzò gli occhi, e – senza badare a quello che faceva – si mise a fischiettare, com’era solito ogni qual volta un dubbio o un pensiero lo rodevano dentro. Fischiava, fischiava sì. Non era propriamente un fischio, ma uno zufolío sordo, piuttosto; a fior di labbra, sempre con la medesima cadenza.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Una commovente processione in casa del giovine sacerdote don Arturo Filomarino. Visite di condoglianza. Tutto il vicinato stava a spiare dalle finestre e dagli usci di strada il portoncino stinto imporrito fasciato di lutto, che così, mezzo chiuso e mezzo aperto, pareva la faccia rugosa di un vecchio che strizzasse un occhio per accennar furbescamente a tutti quelli che entravano, dopo l’ultima uscita – piedi avanti e testa dietro – del padrone di casa. La curiosità, con cui il vicinato stava a spiare, faceva nascere veramente il sospetto che quelle visite avessero un significato o, piuttosto, un intento ben diverso da quello che volevano mostrare.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
In quell’umile cameretta di prete piena di luce e di pace, coi vecchi mattoni di Valenza che qua e là avevano perduto lo smalto e sui quali si allungava quieto e vaporante in un pulviscolo d’oro il rettangolo di sole della finestra con l’ombra precisa delle tendine trapunte e lí come stampate e perfino quella della gabbiola verde che pendeva dal palchetto col canarino che vi saltellava dentro, un odore di pane tratto ora dal forno giú nel cortiletto era venuto ad alitare caldo e a fondersi con quello umido dell’incenso della chiesetta vicina e quello acuto dei mazzetti di spigo tra la biancheria dell’antico canterano.
Messa in voce di Gaetano Marino. Musiche di Simon Balestrazzi
Smilzo, un po’ curvo, con un abitino di tela che gli sventolava addosso, l’ombrello aperto sulla spalla e il vecchio panama in mano, il signor Aurelio s’avviava ogni giorno per la sua speciosa villeggiatura. Un posto aveva scoperto, un posto che non sarebbe venuto in mente a nessuno; e se ne beava tra sé e sé, quando ci pensava, stropicciandosi le manine nervose. Chi sui monti, chi in riva al mare, chi in campagna: lui, nelle chiese di Roma. Perché no? Non ci si sta forse freschi piú che in un bosco? E in santa pace, anche. Nei boschi, gli alberi; qui, le colonne delle navate; lí, all’ombra delle frondi; qui, all’ombra del Signore.
C’era una volta un uomo e sua moglie che vivevano in una casa con un bel giardino, distante alcune miglia dal villaggio. Una sera venne un giù un gran temporale, la pioggia si sentiva battere forte sul tetto della casa e il vento soffiava all’impazzata, tanto che pareva volesse portare via ogni cosa. Appena l’uomo e sua moglie accesero il camino e si sedettero per scaldarsi, si sentì battere piano alla porta.
Una volpe stava mangiando, quando passò un elegante ermellino. – Vuoi favorire? – disse la volpe ormai sazia. Grazie, – rispose l’ermellino – ho già mangiato. –
Ah, ah! – rise la volpe. – Voialtri ermellini siete gli animali più modesti del mondo. Mangiate solo una volta al giorno, e preferite digiunare piuttosto che sporcarvi il vestito. – In quel mentre arrivarono dei cacciatori. La volpe, svelta come un lampo, si rintanò sotto terra, e l’ermellino, non meno veloce della volpe, corse verso la sua tana. Ma il sole aveva sciolto la neve e la tana era diventata un pantano. Il candido ermellino, per non strisciare nel fango, si fermò titubante. E i cacciatori lo colpirono a morte. La moderazione frena tutti i vizi, tanto che l’ermellino preferisce morire, piuttosto che macchiare la sua purezza.
C’era una volta un mugnaio che aveva due belle figliuole. A una avea dato nome Rota, all’altra Tramoggia. La gente che andava a macinare, vedendo le due ragazze, domandava: — Compare, ma quando maritate queste figliuole? — Quando ci sarà chi le vuole. — E che dote gli date? — Dote niente. Rota la regalo, Tramoggia la do per nulla. — Furbo siete, mugnaio!
C’era una volta un Re e una Regina che non avevano figliuoli e pregavano i santi, giorno e notte, per ottenerne almeno uno. Intanto consultavano anche i dottori di Corte. – Maestà, fate questo. – Maestà, fate quello. E pillole di qua, e beveroni di là; ma il sospirato figliuolo non arrivava. Una bel giorno ch’era freddino, la Regina s’era messa davanti il palazzo reale per riscaldarsi al sole. Passa una vecchiarella: – Fate la carità! E la regina rispose: – Non ho nulla. La vecchiarella andò via brontolando. – Che cosa ha brontolato? – domandò la Regina. – Maestà, ha detto che un giorno avrete bisogno di lei.